LAZIALI DOC - Dal tifo al giornalismo, dal ricordo di Chinaglia alla Lazio attuale: Pietro Pasquetti si racconta... "La società dovrebbe circondarsi di gente laziale"
Fonte: Stefano Fiori/Emiliano Storace-Lalaziosiamonoi.it
"E ora la parola passa a Pietro Pasquetti": quando le pay-tv non facevano ancora il bello e il cattivo tempo, quando non esisteva alcuna app per scorrere i risultati di qualsiasi partita sul cellulare, due erano gli appuntamenti fissi ed esclusivi nella domenica sera di ogni tifoso di calcio. Il primo era 90° Minuto, su cui tanta letteratura sportiva ha speso fiumi d'inchiostro. Il secondo si trovava - e si trova ancora - all'interno del Tgr Lazio, nel momento in cui il conduttore del telegiornale passava la parola, appunto, a Pietro Pasquetti per il punto su Lazio, Roma e su tutte le categorie inferiori. "La gente aspettava solo noi per sapere cosa avevano fatto le altre squadre rivali della regione", sottolinea con un pizzico d'orgoglio l'attuale vicedirettore del Tg3 e responsabile dello sport di tutte e venti le regioni italiane.
"La mia passione per la Lazio nasce tantissimi anni fa, negli anni '60. Era più o meno il 1963, quando per la prima volta misi piede allo stadio. Quella era una Lazio umile, che aveva appena conosciuto la Serie B, composta di giocatori di cui la maggior parte dei tifosi probabilmente non ricorda neanche il nome. In quel periodo abitavo tra Sacrofano e Formello, andavo allo stadio con mio zio, un autotrasportatore e mio padre, che aveva un piccolo negozio. Dal momento che di soldi ce n'erano pochi, partivamo a bordo di un camion scoperto, arredato con i banchi come quelli delle chiese.
Alla passione per i colori biancocelesti si unì ben presto quella per le tinte bianco e nere della carta stampata. Prima di diventare un volto noto del Tg regionale, infatti, Pasquetti ha trascorso gli anni della cosiddetta gavetta in una redazione di un quotidiano:
Io vengo dal Popolo, che era il giornale della Democrazia Cristiana. Nei quotidiani di partito ti pagavamo quando potevano, però mi hanno permesso di diventare giornalista.
Nel mondo del giornalismo, c'è chi considera lo sport come stampa di "Serie B", rispetto alle più quotate politica, economia e cultura. Pasquetti, invece, è di parere completamente opposto:
Io credo che chi non abbia mai fatto sport o cronaca, non abbia mai fatto veramente questa professione. Nello scrivere per la terza pagina (che nel gergo giornalistico indica la sezione di cultura e spettacoli ndr), per un saggio di economia o di politica estera, infatti, manca l'immediatezza degli eventi che c'è nello sport. L'immediatezza è tutto, appena la partita termina, entro cinque minuti devi scrivere il pezzo. L'immediatezza sta proprio nel raccontare l'evento subito dopo. Quando fai televisione è ancora diverso. Io seguito i Mondiali, le Olimpiadi, la Coppa Libertadores: nel momento che, tramite il satellite, ti passavano il segnale e si accendeva l'antenna sull'Eurovisione di Ginevra, avevi a disposizione tre-quattro minuti e dovevi essere prontissimo, altrimenti era finita. Ripeto, io credo che la scuola più pressante per la nostra professione siano la cronaca e lo sport. Stai in giro per strada tutti i giorni, come sa chi è stato per anni a Formello o a Trigoria. Anche io, per quattro-cinque anni, ho avuto l'incarico di seguire la Roma, ai tempi di Dino Viola. A livello professionale, mi ha sempre fatto piacere quando la gente mi chiedeva "Ma tu di che squadra sei?", perché significa essere in grado di scindere la passione personale dal lavoro.
Il giornalismo in cui si è fatto le ossa Pietro Pasquetti, figlio di una generazione di nomi importanti della cronaca sportiva, era completamente diverso da quello attuale: innanzitutto perché era ancora di là da venire l'epoca delle pay-tv e dell'offerta informativa 24 ore su 24; in secondo luogo, perché esisteva un modo di relazionarsi con i calciatori totalmente differente:
Il rapporto con i giocatori era diretto: andavi al campo di allenamento per intervistarli e, se ti rispondevano di no, era semplicemente perché in quel momento magari erano stanchi e non avevano voglia di parlare. L'addetto stampa c'era, ricordo Mimmo De Grandis, Mario Pennacchia, ma il rapporto con i calciatori era diretto. Poi potevi vedere sempre allenamento, non c'erano troppi divieti. Anche per quanto riguarda la sala stampa dell'Olimpico, la situazione era la stessa: all'epoca il Tg regionale aveva l'esclusiva come televisione, avevamo una stanza per conto nostro, ma non esisteva certo la mixed zone, chi passava si fermava a parlare. Con la mia generazione, certo, inizia un pochino il cambio con tv e radio, ma comunque le emittenti locali si contavano sulla punta delle dita, in gran parte c'erano i giornali. Nella pancia dell'Olimpico ero in compagnia di grandi firme come Walter Gallone, Alberto Dalla Palma o come Alessandro Vocalelli (attuale direttore del Corriere dello Sport ndr), che è della mia generazione: con lui andai come inviato in Turchia a incontrare Can Bartu, che aveva giocato alla Lazio negli anni '60.
Come fosse un segno del destino, nel periodo in cui Pasquetti muoveva i primi passi nel mondo del giornalismo sportivo, i primi anni '70, la Lazio scoprì il sapore intenso della vittoria, arrivando a salire sul tetto d'Italia nel 1974. Quella era la Lazio di Tommaso Maestrelli, di Capitan Wilson, di Luciano Re Cecconi e di Giorgio Chinaglia:
Nell'anno dello Scudetto vidi tutte le partite. Il giorno di Lazio-Foggia, quando vincemmo il Tricolore, un amico con cui ero andato allo stadio fu tra quelli che scesero in campo a rincorrere i giocatori... mentre la moglie stava partorendo all'ospedale. Per quanto riguarda il Chinaglia calciatore, l'ho vissuto più da tifoso, ero alle prime armi con il lavoro. Da cronista, invece, ho avuto modo di seguirlo nel suo periodo da presidente, lo intervistai in numerose occasioni. Io credo che il rapporto tra Giorgio e la Lazio sia racchiuso nella frase che la Curva Nord ha scritto in occasione di Lazio-Napoli (la partita dello scorso 7 aprile che seguì alla morte di Chinaglia ndr): "Nonostante tutto...".
Dalla scomparsa di Chinaglia, sono ormai trascorsi due mesi. Il suo addio è forse coinciso con il periodo in cui i tifosi biancocelesti sentono maggiormente figure che, soprattutto a livello societario, incarnino la lazialità autentica:
Questo è l'errore che ha fatto Lotito, sembra quasi che si abbia paura a circondarsi di gente laziale; inoltre c'è anche questo rapporto conflittuale con i tifosi. Secondo me la società sbaglia a non far crescere la lazialità il più possibile, perché questo vuol dire anche fidelizzazione del tifoso.
Volendo un po' immaginare le iniziative che si potrebbero adottare per coltivare il rapporto con la storia laziale, Pasquetti guarda in particolare all'estero:
Un'idea che ho sempre avuto è quella che attua il Real Madrid: i soci vip, che non pagano nemmeno allo stadio. Ora loro possono permettersi Alfredo Di Stefano come presidente della fondazione, il capitano di una squadra che per cinque anni di seguito ha vinto la Coppa dei Campioni e che ha perso una sola partita: vennero sconfitti a Dortmund per 3-0, l'allenatore Muñoz s'infiuriò con tutti per la figuraccia fatta, ma Puskas e Di Stefano gli dissero: "Mister, non ti preoccupare che vinciamo a Madrid"... e vinsero 5-0 la partita di ritorno. Oggi, invece, non c'è più un personaggio di quel livello. Ma perché non si fa qualcosa legato alla lazialità a livello di società? La domenica a Manchester, gente come Bobby Charlton sta in tribuna. Noel Gallagher (ex leader degli Oasis, insieme al fratello Liam ndr) si guarda le partite del Manchester City in ogni angolo della Terra e quando è a casa assiste alla gara allo stadio, perché lo sceicco lo porta in tribuna d'onore. Non so se abbiamo gente di quello spessore, però un po' di personaggi che facciano da vetrina all'Olimpico ci dovrebbero essere. Gli dai il biglietto, non perché non se lo possano permettere, ma perché li devi invitare e farli sentire parte di una grande famiglia. La Lazio ha delle persone da poter coinvolgere. Nelle scuole, per esempio, oltre ai calciatori di oggi sarebbe efficace anche quelli di una volta, che sono la memoria storica e fanno da collante tra una generazione e l'altra.
Oltre alle figure storiche che hanno fatto grande la Lazio, Pasquetti volge lo sguardo anche ai quella schiera di personaggi "vip", soprattutto internazionali, che hanno espresso la propria simpatia per i colori biancocelesti:
In Svezia c'è Magnus Carlsen, numero uno al mondo degli scacchi, un ragazzo di 21 anni. Intervistato da un settimanale italiano, alla domanda "Come ti tieni in forma?", ha risposto: "Corro e gioco a calcio con una squadra di dilettanti del mio Paese".
Nel mondo Lazio, in alcuni casi, si rintraccia anche una certa ritrosia in alcuni personaggi famosi a esternare la propria fede. Secondo Pasquetti, anche questo è un discorso che rientra tra i piani a cui dovrebbe pensare la società:
Se tu li coinvolgi in qualche maniera, non è che loro abbiano problemi a esporsi, secondo me queste figure s'impegnerebbero. Ecco perché si dovrebbe pensare a un'iniziativa in cui coinvolgere personaggi di tutte le categorie. Poi magari uno tra questi lo nomini presidente onorario. Prendi per esempio Antonio Buccioni, presidente della Polisportiva e memoria storica della Lazio, e gli fai fare il segretario generale di questa iniziativa. In questo modo si creerebbe anche una rete di contatti: se per esempio nel Lazio ci sono trenta sindaci tifosi biancocelesti, con la rivista ufficiale li vai a intervistare uno per uno. L'obiettivo dovrebbe essere quello di creare una grande famiglia, come avviene all'estero, soprattutto in Inghilterra. Io ho condotto per un anno una trasmissione in cui portavamo in studio un ex romanista e un ex laziale della storia.
Anche nel passato recente, Pasquetti indivua tanti protagonisti che sono cresciuti in maglia biancoceleste o che la Lazio hanno contribuito a renderla grande:
Uno è Marco Di Vaio. Il nonno era amico di mio padre, faceva il robivecchio ed era laziale perso, andava in giro con la sua Ape con un'aquila incollata allo sportello. Ma a Roma abbiamo avuto uno come Sinisa Mihajlovic, che ora allena la Serbia: perché non gli hai affidato la panchina della Lazio? Quando Sinisa giocava a Roma, c'era un proprietario di cavalli che aveva chiamato un suo cavallo proprio Sinisa Mihajlovic. Io li feci incontrare, abbiamo anche fatto un servizio a Capannelle. Poi penso a Paolo Di Canio: quando andò via dalla Lazio, fui io a intervistarlo. Lui non voleva assolutamente andare via, la sua lazialità è fuori discussione.
Nelle parole di Pasquetti, i nomi snocciolati sono tanti, tutti prestigiosi, arricchiti dalle sensazioni di uno che il grande calcio l'ha vissuto, in un certo senso, da protagonista, con il microfono in mano. Nel corso della sua carriera, sono stati tanti i personaggi da lui intervistati, molti dei quali possono provocare emozioni anche in un professionista affermato come lui:
Vi posso garantire che nemmeno con Maradona mi ha mai tremato il microfono, ma mi è successo solo due volte in carriera di sentirmi emozionato. Una volta, durante Italia '90, andai a seguire gli allenamenti dell'Irlanda del Nord, che si allenava all'Olimpico in vista della partita. Li allenava Jackie Charlton, il centro-mediano dell'Inghilterra Campione del Mondo nel 1966. A un certo punto dico all'operatore, Vincenzo, che purtroppo non c'è più: "Guarda, quello è Bobby Charlton!", il fratello di Jackie. Stava seduto solo in tribuna, poco più sotto i giornalisti che vedevano l'allenamento.
Attualmente, Pasquetti è alla vice-direzione del Tg3, il campo non lo segue più come una volta, ma la sua attenzione da esperto cronista, unita alla forte passione per i colori biancocelesti, non gli hanno mai fatto smettere di vivere il mondo Lazio fino in fondo. A giugno si è ormai entrati nel vivo della fase preparatoria che porterà alla nuova stagione, ma è doveroso anche fare un bilancio del campionato terminata da poco meno di un mese:
Alla stagione appena terminata dò un 7 abbondante, ma con tanto rammarico, perché si poteva fare di più, sarebbe bastato poco. Il rammarico è aver mancato la Champions League: per come si era comportata la squadra e, diciamo la verità, per la mediocrità di questo campionato, la Lazio aveva tenuto in pugno il terzo posto per mesi e mesi; però l'ha buttato, in un momento di difficoltà, non c'è dubbio, dovuto ai tanti infortuni, però è mancata soprattutto la testa e l'aiuto da parte della società. Quando a gennaio la squadra doveva essere puntellata, al contrario è stata smontata, perché se dai via Cisse, Sculli e Stendardo, devi trovare dei rinforzi.
Un bilancio della stagione appena trascorsa vuol dire anche esprimere un giudizio sull'operato dell'ormai ex allenatore biancoceleste Edy Reja:
Di Reja ci rimane il ricordo di una persona onesta, che più di quello non può fare, perché è un uomo di un altro calcio, però ha avuto il merito di unire il gruppo, di tenere compatta la squadra anche nelle diaspore tra società e settore tecnico.
L'era Reja, però, ormai è un capitolo chiuso: adesso è ufficialmente iniziata quella di Vladimir Petkovic, allenatore fino a pochi giorni fa sconosciuto ai più, che è arrivato a Roma tra lo stupore e la curiosità. Il giudizio di Pasquetti non può che essere sospeso, in attesa di vederlo all'opera, ma la sua scelta sarebbe stata sicuramente diversa:
Non lo conosco, spero che quanto ho letto corrisponda a verità, ma io avrei puntato su un allenatore italiano.
In questi giorni, però, in casa Lazio ha tenuto banco un altro argomento, purtroppo dai contorni drammatici e che con il calcio giocato ha poco a che vedere: lo scandalo calcioscommesse e l'arresto di Stefano Mauri:
Un durissimo colpo, ma spero che Mauri possa dimostrare la propria innocenza. In Italia ci sono tre gradi di giudizio e vale la presunzione d'innocenza. In ogni caso non dobbiamo fare né i tifosi né gli ipocriti: se c'è qualcuno che ha sbagliato è ora che vada via. Io ho sempre confidato nella magistratura e nella giustizia sportiva, spero che arrivino fino in fondo per ripulire il calcio da tutto il marcio. Poi da tifoso che devo dire? Capitano tutte a noi! Ormai ci ho fatto il callo, ma ora dobbiamo unirci attorno all'unica cosa che conta e che ha sempre contato: il simbolo della Lazio.
Sullo sfondo, poi, c'è sempre la questione stadio, con l'accordo tra la Lazio e il Coni sull'Olimpico che, dopo un braccio di ferro estenuante, sembra essere arrivato a conclusione. E poi la proposta ad alto tasso di romanticismo avanzata dall'Assessore allo Sport del Comune di Roma, Alessandro Cochi: portare la Lazio a giocare allo Stadio Flaminio. A Pasquetti l'idea stuzzica, ma preferisce essere realista:
La proposta è intelligente, ma i tempi sono lunghi e i costi sono alti, non credo si farebbe in tempo per questo campionato. Io non so bene come sia fino in fondo la diatriba tra la Lazio e il Coni, però io ho una grande stima di Gianni Petrucci, secondo me è il più grande dirigente che abbia mai avuto lo sport italiano, dopo Giulio Nesti, è uno che non parla mai a vanvera e poi è laziale... non è amico di Lotito, ma è laziale.
La chiacchierata con Pietro Pasquetti, ricca di aneddoti, di proposte, di riflessioni mai banali è ormai giunta al termine. L'ultima battuta che ci riserva prima di salutarci è sul parere personale che nutre nei confronti della gestione Lotito, alle porte della sua nona stagione da presidente della Lazio:
Lui ha avuto il merito di tirare la Lazio fuori da un mare di guai, proprio con la sua irruenza, con il suo modo di fare.
Gettiamo un occhio all'orologio, sono passate poco meno di due ore. Parlare di Lazio, della sua storia, dei grandi nomi che l'hanno onorata ha come effetto collaterale quello di sospendere il tempo. Da quando abbiamo acceso il registratore, sembrano passati neanche dieci minuti. Ecco, è proprio questa la sensazione che abbiamo vissuto in compagnia di Pietro Pasquetti: che la storia ultracentenaria della Lazio, nutrita da rare ma incredibili vittorie, sconfitte cocenti ma da cui ci si è sempre rialzati, scorra leggera e senza tempo nella mente di chi la rivive. Leggera come il volo di quell'aquila che, il 9 gennaio 1900, ha schiuso le ali per librarsi in volo.