LE MAGLIE DELLA STORIA - Fallimento scongiurato, il numero 9 e la maglia senza paura
Fonte: Andrea Francesca-Corso d'Informazione Sportiva de Lalaziosiamonoi.it
"Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano". Scritte nel cielo le parole di questa canzone per descrivere la maglia della stagione 2004-2005. Si tratta di una maglia sotto certi aspetti diversa, la prima di un nuovo ciclo, una maglia che ha rischiato come non mai nella storia biancoceleste di non venire alla luce. Era l’estate del 2004 e la Lazio disperata sull’orlo del fallimento viene prelevata da Claudio Lotito, riuscito a prevalere sull’altro contendente Tulli, proprio sul filo di lana appena in tempo per l’iscrizione al campionato, che fino a qualche giorno prima sembrava un miraggio. Una corsa in motorino dell’avvocato Gentile e una dilazione col fisco per ben ventitré anni hanno fatto il resto. Il problema che sorgeva spontaneo era uno. La maglia era salva sì, ma serviva pur qualcuno che la indossasse. I lustri e le decorazioni dovevano lasciar spazio al sudore, l’eleganza era stata accantonata in favore della praticità. I nomi altisonanti che avevano riempito le sue spalle negli anni addietro non c’erano più, in cerca di fortune altrove, spesso trovate. Stam, Stankovic, Fiore, Corradi e tanti altri erano partiti per altri lidi. Nonostante la sua natura operaia quella casacca restava ancora nobile nella sua essenza e per quanto caduta in disgrazia, un fregio gli era rimasto. Quella coccarda tricolore frutto della grande affermazione dell’anno precedente in Coppa Italia con la quale aveva abdicato con onore la banda Mancini. E per un po’ quella divisa fu tessuto di pochi, in quanto fino alla fine mancava persino quello che deve consegnarla ai giocatori che vanno in campo, il mister. L’allenatore fu deciso in ritiro dai suoi calciatori, altro paradosso di quell’annata, ed è buffo che i biancocelesti si presentarono a disputare una finale, la Supercoppa Italiana, contro il grande Milan con una squadra più simile a una Primavera che a un’organico di Serie A. La partita fu una disfatta annunciata. Una parvenza di squadra si riuscì a comporre grazie ai famosi ‘9 in un giorno’, in riferimento agli arrivi allo scadere del calciomercato, alcuni dei quali semisconosciuti provenienti dalle parti più disparate del mondo. Nonostante le mille difficoltà e il pericolo fallimento scampato per un non nulla, quella maglia generò un entusiasmo contagioso. Specialmente una di esse. Il numero sulle spalle era il 9. Un numero quasi sacro quando si parla di biancoceleste. Chinaglia, Giordano, Fiorini ma anche i più recenti Salas e Casiraghi. A questo elenco si aggiunse quell’estate uno dei più amati di sempre, quasi come la fine di un ostracismo, il ritorno del figlio prediletto. Era un pomeriggio caldo di luglio quando rimise piede nella Capitale a distanza di quindici anni Paolo Di Canio. Sì, proprio il ragazzetto spavaldo e irriverente del Quarticciolo. Ormai cresciuto, maturato, ‘inglesizzato’, ma sempre lui, semplicemente Paolo Di Canio. Ancora una volta con la maglia della Lazio, quella con la quale non aveva paura di niente. L’accoglienza è di quella che si riserva solo ai numeri 1, anzi ai 9, con oltre 5000 persone a Formello e con uno striscione di benvenuto a dir poco profetico: "Il destino ti ha fatto ritornare, sotto la Sud vogliamo rivederti esultare". E come nelle favole questo si realizza. La maglia ovviamente è celeste a V, al centro domina lo sponsor con la scritta Parmacotto su sfondo giallo. Sul petto ai lati da una parte lo scudetto dall’altra il tipico felino emblematico della Puma, simbolo che si ripete anche sulla manica. Al centro tra i due si staglia la coccarda tricolore dell’ultima Coppa Italia conquistata. I numeri e i nomi dei calciatori sono stampati, di colore nero e con i bordi grigi. Quasi inutile specificare qual è stata l’impresa per eccellenza di quella maglia. E’ il derby del 6 gennaio 2005 e la Lazio, in lotta per non retrocedere, si presenta in piena emergenza e con un nuovo allenatore visto l’esonero di Mimmo Caso. Il nuovo arrivato Papadopulo non fa altro che puntare su Di Canio e sulla sua grinta e voglia di vincere e mai fiducia fu più ripagata. E’ l’inglese del Quarticciolo che prende per mano la squadra, la indottrina a dovere su cosa rappresenta il derby, la difende dagli attacchi della controparte e la guida sul campo da vero condottiero in quello che è stata una delle stracittadine più belle di sempre per i sostenitori della prima squadra della Capitale. L’epicentro della scossa che ha pervaso la Città Eterna è lo Stadio Olimpico, al minuto 28 del primo tempo, quando quella maglia col numero 9 a distanza di 15 anni si ripresenta ancora lì, in un conto in sospeso, come se il tempo non fosse mai passato, sotto la Curva Sud. Spavaldo, orgoglioso e irriverente l’incubo giallorosso è tornato. Sempre lo stesso numero. Sempre il 9. Sempre lo stesso sguardo. E’ passato tanto tempo ma sembra una scena già vissuta, un deja vu d’adrenalina ed esaltazione allo stato puro. La maglia, che non conosce paura proprio lì, nella tana del nemico, lo fissa, lo provoca, lo sfida. L’avversario è inerme, remissivo, a testa bassa, ciò che la terrorizzava si è verificato proprio lì sotto i suoi occhi. In quel duello lanciato, in quell’indomito e sfrontato pezzo di stoffa c’è la sintesi esistenziale di un’idea e di coloro che l’hanno fatta propria, dal pericolo del fallimento alla paura di sparire, dalle sofferenze alla solita indomita forza di rialzarsi passando per la voglia di rivincita nei confronti di chi come sempre si era augurata il suo male e aveva cantato vittoria prima del tempo. Dopo il momentaneo pareggio di Cassano la Lazio vincerà la partita grazie a Cesar e Rocchi per l’apoteosi finale del popolo laziale. Una maglia che rappresenta l’andamento di quel derby, che è un po’ la storia della Lazio e quella del suo condottiero, mai disposti ad arrendersi davanti alle difficoltà e pronti a rialzarsi quando sembra ormai tutto finito.