50 anni fa moriva Fausto Coppi, la S.S. Lazio lo rimise in bicicletta
Fonte: Il Messaggero / Gallone - Governi - De Bari
Cinquant’anni dopo, il mito di Fausto Coppi è ancora vivo. La sua morte precoce (aveva 40 anni e 4 mesi) lo consegnò alla leggenda. Ancora nitida, nutrita da cose accadute e da cose sognate. Cronaca e fantasia di una stagione ormai lontana. Tante storie. Una di queste, è quella di Coppi corridore della S.S. Lazio. (la foto tessera dell'affiliazione)
C’era una volta il Campionissimo. Il Grande Airone delle cavalcate solitarie. Fausto Coppi amato da tutti, era “Fostò” per i francesi. Nonostante una guerra di mezzo (e la prigionia in Africa) Coppi disputò 666 corse su strada, vincendone 118, 58 per distacco, 84 successi nell’inseguimento in pista. Cinque Giri d’Italia, due Tour de France, un mondiale su strada a Lugano. Oltre tremila chilometri in fuga solitaria.
Una vita vissuta sempre in prima pagina. La rivalità con Bartali, le undici fratture, la tragica morte del fratello Serse in corsa, la storia d’amore (scandalosa per quei tempi) con Giulia Occhini, la Dama Bianca, mamma di Faustino, il lungo tramonto agonistico, protratto fino alla soglia dei 40 anni, la morte improvvisa, per colpa di una malaria non diagnosticata e mal curata, contratta in una battuta di caccia nell’Alto Volta, oggi Burkina Faso. Sarebbe bastato un po’ di chinino, quello che salvò Geminiani, l’italo-francese suo compagno in quel viaggio maledetto. Tutto inutile. O forse inevitabile. Come scrisse Gianni Brera, gli eroi non possono invecchiare. Fausto Coppi morì alle ore 8,45 del 2 gennaio 1960, dopo quindici ore di agonia, in un lettino della stanza numero quattro dell’ospedale di Tortona. Il grande Airone chiuse le ali ed entrò nella leggenda.
Coppi fu tesserato dalla Lazio-ciclismo nel ’45, grazie ai buoni uffici di Edmondo Nulli, un costruttore di bici romano e di Pietro Chiappini, toscano, buon corridore pro che aveva appena smesso e che molti anni dopo sarebbe diventato presidente della Roma ciclismo. Tessera biancoceleste numero 9, una maglia sgualcita dello stesso colore, sostituita poi da una arancione. Caporale del 38° reggimento fanteria, Coppi fu fatto prigioniero in Africa dagli inglesi, ma proprio grazie a un ufficiale d’oltre Manica tifoso di ciclismo riuscì poi a tornare in Italia come autista, presso la Royal air Force di Caserta. Coppi voleva tornare a correre. A Caserta conobbe Umberto Busani, attaccante del Napoli (e in precedenza goleador della Lazio: dal ’36 al ’40, 106 presenze e 38 reti) che lo presentò a Gino Palumbo, caporedattore a “La Voce”, per fargli avere una bici. Ci fu il contatto con Nulli, il cartellino con la Lazio. Pochi mesi, sufficienti per vincere sei gare. Tra le più significative, la coppa Salvioni l’8 gennaio del ’45 a Roma (volata a due) e la coppa Candelotti (29 giugno) per distacco.
Coppi tornò poi al Nord, dove iniziò l’epopea, sempre in biancoceleste, con la Bianchi. Nacque il mito.
"Un uomo solo è al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi. "
Questo incipit di radiocronaca pronunciato da Mario Ferretti ha accompagnato la memoria del Campionissimo per più di sessanta anni. Chi c’era giura di averlo sentito, anche io bambino, sono sicuro di averla sentita. Ma negli archivi della Rai di questo incipit non c’è traccia.
Tutto questo non ha importanza perché la frase di Ferretti ha connotato Fausto Coppi, come un “uomo solo al comando”. Al comando della corsa, per le sue fughe solitarie, ma anche uomo solo nella vita. Fin da quando, ragazzo, passava ore intere in bicicletta per consegnare la merce del salumaio Merlano di Novi Ligure. «Sempre solo, perché?», lo chiese una volta a Cavanna, il massaggiatore cieco che conosceva ogni fibra del suo corpo. «Sei solo, perché un uomo eccezionale come te non trova facilmente conforto nel rapporto con gli altri. La solitudine fa parte della tua forza, soltanto chi è abituato alla solitudine può stare su una bicicletta per otto ore al giorno, soltanto chi è abituato alla solitudine può sobbarcarsi fughe lunghissime e snervanti come fai tu, soltanto la solitudine ti fa ascoltare con orecchi sgombri il funzionamento del tuo organismo, ti fa capire che cosa sta succedendo dentro di te, se ogni organo risponde positivamente alle tue richieste».
Fausto fu solo quando gli italiani che pure lo avevano adorato lo abbandonarono, e molti lo esecrarono, nella sua drammatica vicenda sentimentale con la Dama bianca. Anche i suoi tifosi più accaniti permisero che dall’Italia bacchettona venisse trattato come un delinquente, la sua compagna imprigionata e lui processato. Fu solo anche nella morte assurda, durante le feste di fine anno, quando un balletto di medici inetti non seppero riconoscere una banale malaria. Per assurdo ebbe conforto soltanto dal suo amico-rivale Gino Bartali, che di Fausto era l’opposto. E’ quest’uomo solo che mi ha affascinato fin da bambino. E’ per raccontare questo uomo solo che ho scritto il libro “Il Grande Airone”.
Il 2 gennaio del 1960 volò verso il cielo per l’ultima fuga: il gruppo non lo avrebbe mai ripreso. L’Italia sgomenta e incredula piangeva Fausto Coppi, il suo eroe, che la morte aveva consegnato alla leggenda. Una fine assurda, colpa della malaria che il Campionissimo contrasse in Africa e che i medici, alcuni di grande fama, nonostante le indicazioni precise arrivate dall’amico e collega Geminiani, guarito con il chinino, non riuscirono a capire in tempo. Gli ultimi giorni di vita del ciclista furono drammatici: notizie contraddittorie che si rincorrevano e scuotevano l’Italia, fra speranze, timori, angosce, fino alla morte.
Verso l’ospedale di Tortona e verso la casa di Castellania cominciò un vero e proprio esodo. Ai funerali di Fausto Coppi parteciparono oltre 50 mila persone, tutto il Paese volle tributare il commosso saluto a un personaggio che contribuì, con le mitiche imprese, a far risorgere l’Italia dalle ceneri della devastante guerra. Non fu solo il figlio di un’epoca drammatica, ma anche l’interprete che ne seppe esaltare il desiderio di riscatto e di rinascita. La sua scomparsa ebbe un’eco incredibile in tutto il mondo, perché Coppi non era solo un campione sportivo che aveva scritto pagine memorabili. Era anche uno spaccato della storia italiana, per l’adulterio più chiacchierato e famoso del secolo, con Giulia Occhini, la moglie dell’amico medico Locatelli, che indusse a scendere in campo, per una solenne condanna, persino Papa Pio XII.
Una vita vissuta sempre in salita, come quelle dove amava spiccare il volo con inimitabile leggerezza mentre accarezzava i pedali. Insensibile alle pendenze, refrattario alla gravità. La morte del papà, a soli 50 anni, travolto dai buoi, la perdita del fratello Serse, durante una corsa, le fratture, i due anni trascorsi nei campi di concentramento in Africa. Coppi sapeva risorgere. Amava la solitudine, quella che gli faceva compagnia durante le interminabili cavalcate solitarie. Nacque gracile (appena 2 chili di peso) e povero (faceva il garzone di bottega in una salumeria). Divenne, ricco e famoso, senza mai perdere di vista quell’umanità e quella generosità che lo distinguevano. Era un campione umano e di risorse tecniche inimmaginabili, che appassionava la gente e la teneva incollata alle radioline, suscitando suggestioni ed emozioni uniche, di quelle che lasciavano il segno.
Non si può parlare di Coppi senza parlare di Bartali. La loro rivalità accese e divise l’Italia, che si fermava per vivere i loro duelli. Fausto gregario di Gino fu capace di vincere il Giro alla prima esperienza, diventandone presto il grande avversario. Una rivalità anche a livello commerciale. Bartali leader della Legnano, Coppi simbolo della Bianchi, le due case costruttrici di biciclette: il mezzo più usato dagli italiani nel periodo post bellico. Mai il tifo per 2 campioni è stato così marcato, sentito, feroce. Coppiani e bartaliani si davano appuntamento sulle montagne più dure e famose del ciclismo e qualche volta volavano anche botte. Fausto, nei 2 Tour vinti, seppe sfruttare l’alleanza con Gino che vinse i suoi 2 Tour senza il rivale in corsa. La foto della famosa borraccia, che in realtà era una bottiglia, che i due campioni si passarono sul Galibier nel 1952, scattata dal mitico Carlo Martini, fece il giro del mondo e divenne la foto-copertina di tanti rotocalchi. Un simbolo inossidabile al tempo. Com’è inossidabile la leggenda di Fausto Coppi che, a 90 anni dalla nascita e a 50 dalla morte, continua a essere ancora in fuga. Un uomo solo al comando...