ESCLUSIVA - Acerbis racconta la sua Lazio eroica: "Fascetti era il nostro leader. Di Canio, che talento!"
Fonte: Cristiano Galano-Lalaziosiamonoi.it
21 giugno 1987: quando la fiamma stava per spegnersi del tutto, quando un portiere sconosciuto e dal cognome quasi beffardo per te, per quei sessantamila, al secolo Ennio Dal Bianco, si frapponeva tra l'incubo e la sopravvivenza, quando una tifoseria diventava mito, quando quell'attaccante "bello e maledetto" spinse, finalmente, la palla alle spalle dell'inopportuno guardiano veneto, quando hai abbracciato tutto e tutti, pazzo di rabbia e gioia, lui c'era. 5 Luglio 1987: "vedi Napoli e non muori", quando stavolta sei tu a sbeffeggiare il destino; quando Francesco Boito da Ponte delle Alpi, maglia numero 9 del Campobasso sulle spalle spreca, senza poesia, il match ball e, solo in area, appoggia comodo all'incredulo Terraneo invece di far tutt'uno di porta e portiere; quando Poli e la sua zuccata, subito dopo, rimettono le cose al loro posto, lui aveva la maglia numero 5. 15 Gennaio 1989: quando i "grandi risorgono" perché qui di "vili e mediocri” non c’è ombra; quando sotto la Sud (gioia pura) Ruben Sosa scherza Collovati e scodella per Di Canio il pallone più dolce della Lazio anni Ottanta, è dai suoi piedi che parte l'innesco per l'uruguagio. Lui c'era sempre. In quel triennio complicato, quando la Lazio affrontò le “rapide” più dure della sua ottuagenaria esistenza, lui, il gigante buono, quello che pare essere uscito da uno spaghetti western, col capello spettinato, la bandana al collo e l'aria imbronciata; lui c'era sempre. Lui, che quando arrivò a Roma concesse una sola intervista e poi disse: alla prossima, signori, e non parlo più per cinque anni. Lui che dopo ogni partita, mentre i suoi compagni facevano a gara per finire davanti a una telecamera, stava già facendo la doccia per tornare a casa. Lui, che insieme a Magnocavallo pareva formare una di quelle coppie di avventori che ti ritrovi a fianco all'Oktoberfest, e che se ti chiede più spazio sulla panca, saluti dicendo "ho finito, prego". Lui che la Lazio l'ha sposata, amata, difesa e protetta novantanove volte, come pochi altri calciatori abbiamo visto fare sul prato dell'Olimpico e in giro per l'Italia. Lui c'era sempre. Lui c'è sempre stato. Lui c'è ancora. Antonio Elia Acerbis e l'aquila sul cuore. La redazione de Lalaziosiamonoi.it lo ha raggiunto telefonicamente, entrando in punta di piedi nella sua giornata.
Antonio, non è esagerato affermare che la Lazio vi deve la sopravvivenza, a voi “eroi del -9”, e al gruppo che si cementò anche nei due anni a seguire. La stagione della penalizzazione, però, rimane paradossalmente nella storia della Lazio come una delle più belle stagioni mai vissute. Che gruppo era, il vostro?
“Un grandissimo gruppo con un grandissimo tecnico, Eugenio Fascetti. Ho davanti ai miei occhi la scena del ritiro di Gubbio, quando arrivò la mazzata della retrocessione che ci schiantava in C (sentenza poi modificata nei famosi “-9” da scontarsi nella cadetteria, ndr). Nessuno però fiatò. Il mister fu chiaro come la luce del sole: chi vuole andare, vada; chi resta, resta per lottare. Sai, a quel tempo, non era un problema accettare la Serie B con la Lazio, la consideravamo come una A2. Ma la Serie C non se l’aspettava nessuno. Però fu emozionante: né io né i miei compagni, avemmo dubbi; restammo tutti per dare il massimo. La storia poi ha confermato la bontà della nostra scelta”.
E che stagione, fu quella 1986-1987. Il Vicenza all’ultima giornata, la salvezza agguantata per l’ultimo dei capelli, ma non bastò. Napoli e la sua faticosa appendice, duro giocarsi la sopravvivenza nello stadio di Maradona, peraltro tricolore. Ci riusciste. Poi l’anno dopo, a tutta birra verso la A, la casa della Lazio. Fino ad arrivare al 15 Gennaio 1989? Te la ricordi questa data?
“E chi se la dimentica! Il primo derby con la Lazio in Serie A, la vittoria, Paolo Di Canio sotto la Sud. Che emozione indelebile; io partecipai anche all’azione che portò a quello storico vantaggio (come detto, servì il filtrante per Sosa, trasformato poi in cross per Di Canio-gol, ndr). Peraltro, venivamo da una settimana durissima, piena di malumori e contestazioni per la schiacciante sconfitta subita a Firenze (3-0, Borgonovo, Salvatori Baggio, ndr). Ricordo come i tifosi ci esortavano a vincere quella partita, come fosse importante per loro (memorabile lo striscione fuori da Tor di Quinto che avvertiva “Sveglia, domenica c’è il derby!”, ndr), come rimproverassero la squadra di scarsa determinazione. La risposta che demmo in campo fu la migliore. Giocammo un derby impeccabile, e riconquistammo i tifosi. Posso affermare che il derby di Roma è il più passionale che ci sia. Bellissimo vincerlo; meno, molto meno, se lo perdi”.
Lo hai nominato tu: chi era per voi quel talento del Quarticciolo, chi era per il vostro gruppo, quello sfrontato, ribelle e geniale Paolo Di Canio?
“Un talento puro. Ricordo che quando arrivai a Roma lui stava lottando contro i postumi di un grave infortunio patito a Terni. Talmente grave da rischiare di compromettergli la carriera. Non fu così. Paolo si impegnava con determinazione durante la settimana anche se nella stagione ’86-’87 era ancora in Primavera. Ma quando capitava di allenarci con i ragazzi, non potevi non notare i suoi numeri, numeri da predestinato. Quando l’anno dopo, il primo in Serie A dopo tre anni, Materazzi puntò su di lui lanciandolo nel grande calcio, i risultati furono subito dalla sua. La sua carriera parla da sé”.
Venendo ai nostri giorni: segui la Lazio attuale? C’è qualcuno che pensi possa somigliarti nel modo di stare in campo?
“La seguo, sì, come tutti alla televisione. Non saprei dirti chi, come, possa somigliarmi. Quello che è certo è che ognuno ha la sua epoca e gioca al tempo che gli compete. Gli anni ’70 erano di Pelè, gli ’80 di Maradona, fino ad arrivare ai giorni nostri, ai Cristiano Ronaldo, ai Messi. È difficile dire chi assomiglia a chi; il calcio dei tempo odierni è molto cambiato, è completamene diverso da quello di trent’anni fa. Dunque, le similitudini sono molto difficili a farsi. In casa Lazio, mi ha molto sorpreso la sostituzione di Petkovic in panchina, da fuori dava l’immagine di una brava persona e di un allenatore “sul pezzo”; poi non so che cosa sia successo, cosa si possa essere rotto. Comunque la soluzione Reja mi sembra la più equilibrata per pilotare la Lazio verso acque più tranquille”.
Salutandoti, ma cosa fa Antonio Elia Acerbis: è ancora nel calcio o affitta macchine ai turisti nel paradiso delle Seychelles, come si racconta in giro?
“Questa delle Seychelles l’avevo sentita anche io (ride divertito, ndr)… Chissà chi l’ha messa in giro, ma non corrisponde a verità. Mi riposo, vivo in tranquillità le mie giornate, partecipo a belle rimpatriate come quelle organizzate dal grande Claudio (Scipioni, presidente del Lazio Club Milano, ndr) e dal suo club. Con il calcio, invece, ho chiuso quando ho smesso. Non è il mio mondo, ne ho fatto parte al tempo debito, come dicevamo. Ora non più; vivo bene anche senza”.