Lotito e le virtù del cappotto di cammello

28.04.2015 07:55 di Lalaziosiamonoi Redazione   vedi letture
Fonte: La Repubblica
Lotito e le virtù del cappotto di cammello
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© foto di Luca Bargellini

Ai calciatori attaccati alla maglia adesso si aggiunge il presidente attaccato al cappotto. A primavera ormai esplosa, nella stagione cara alle squadre di Zeman, e dunque ostile a tutti ora che Zeman non c’è più, quando i primi caldi appesantiscono le gambe e infiacchiscono la mente, un uomo coraggioso sfida sole e sudore. Lui. Lotito. Lo avevamo lasciato dentro una felpa azzurra dell’Italia, lo ritroviamo con le spalle infilate nel capo che la moda associa all’eleganza e il calcio allo scongiuro più feroce. Non è mai un cappotto qualunque, il cappotto di cammello. E Lotito lo sa. Porta bene. Così dicono. Perciò lo indossa in ogni sua apparizione, lo sfoggia come uno dei suoi brocardi in ciascuno dei molteplici ruoli che ricopre. È dai piccoli particolari che si giudica un vincitore. Lo mette da presidente della Lazio quando siede in tribuna e da uomo delle istituzioni girando per cene private. Non lo toglie mai. Nemmeno ai buffet. Ce l’aveva pure sabato a Salerno, sul prato, mentre i suoi calciatori lo lanciavano in aria per festeggiare la promozione in serie B, riproponendo in salsa locale la foto che negli occhi abbiamo dei trionfi di Guardiola. A Guardiola oggi si strappa il vestito, il cappotto di Lotito no, neanche una piega. Un simbolo ha sempre il suo potere. Al cappotto di cammello si attribuisce, come dire, la forza di orientare gli eventi. Un carisma nato con Bruno Pesaola, l’ultimo allenatore ad aver vinto uno scudetto a Firenze (1969) e qualcosa a Bologna (la Coppa Italia del 1974). A Napoli tornò negli anni ‘80 per salvare la squadra dalla retrocessione, la scaramanzia ebbe il suo peso, quasi quanto i tanti facili rigori. Quel cappotto lo conserva ancora. È in un armadio di casa, nonostante l’abiura successiva confessata durante un’intervista: «Il cappotto bisogna averlo in testa, per vincere nel calcio». A Costantino Rozzi, presidente storico dell’Ascoli, non bastava indossarlo. Come raccontato da Carletto Mazzone nell’autobiografia “Una vita in campo” (Dalai editore), aveva aggiunto un vezzo prima d’ogni partita, dentro lo spogliatoio. «Il rito era sempre lo stesso, se lo toglieva, lo appallottolava e lo scagliava in un angolo dello stanzone gridando: “Mi raccomando, eh, oggi ce li dobbiamo mangia’, oggi si deve vincere”. E io rispondevo: “È il minimo preside’, il minimo…”». Centosette anni di militanza nello sport. Il cappotto di cammello debutta alle Olimpiadi di Londra del 1908. Il cinema per dire, lo scopre molto dopo. Poi, certo, dipende da come lo porti. Sulle spalle di Marlon Brando in “Ultimo tango a Parigi” fa molto maudit , mentre a vederlo su Boskov l’idea non ti sfiora nemmeno. A Bernardo Bertolucci è sempre rimasto il dubbio che Alain Delon lo avesse portato in “La prima notte di quiete” perché aveva letto tempo prima la sua sceneggiatura. Proprio con quello spirito là si racconta che lo mettesse Renato Cesarini, l’uomo dei gol agli ultimi istanti e uno dei primi ribelli del calcio. All’alba si faceva accompagnare dal taxi direttamente al campo d’allenamento, e sul pigiama ancora caldo di eccessi infilava al volo il cappotto di cammello. Negli stessi anni, raccontano, si regolava così anche Meazza a Milano. Alla Lazio è rimasto celebre quello di João Batista, rigorosamente abbinato a un mocassino nero senza calzino e a certe notti esagerate, ovviamente tutte fuori dal campo. Doveva essere la risposta a Falcão, diventò la riserva di Vinazzani. Nella sua metamorfosi da uomo di rottura a garante delle istituzioni, ora Lotito rimette una vecchia metafora al centro della scena. Il loden blu dei giorni della contestazione e della marginalità chissà dov’è finito. Nel vuoto complice dei regolamenti, impone la sua idea di calcio, le multiproprietà, la Salernitana in B e la Lazio al secondo posto, vicina ai milioni della Champions. Dalla felpa al cappotto di cammello. Dopo c’è solo il giubbotto di pelle.